Eutanasia: sì alla fine della non-vita
E' difficile prendere una posizione netta ed univoca dinanzi ad un problema tanto dibattuto come quello dell'eutanasia, sia per la complessità e la gravità dell'argomento, sia per la peculiarità di ogni singolo caso. La storia è stata spettatrice di innumerevoli episodi di richieste della “buona morte”; soltanto per richiamare l'attualità più recente citiamo nomi come Piergiorgio Welby, Terry Schiavo, Eluana Englaro. In ogni circostanza in cui si è presentato il problema si sono espresse sulla questione migliaia di voci dalle opinioni divergenti. Quando, infatti, il confine tra la vita e la morte diventa labile ed entrano in gioco forze quali il dolore, la perdita della propria dignità e di se stessi, quando l'esistenza appare priva di senso, affiorano le più grandi paure dell'uomo, questi si affaccia su tenebre ignote e brancola nel buio, incapace di trovare una risposta alle sue domande. Diviene facile smarririrsi in un intricato labirinto di battaglie etiche, lotte per i principi, che spesso incontrano contraddizioni in sé, degenerano, giungono al paradosso e perdono ogni senso.
Tuttavia, l'eutanasia intesa come attuazione della richiesta conscia e consapevole, da parte di un malato inguaribile, di porre fine alle sue sofferenze fisiche con una morte indolore, dovrebbe essere ammessa dalla legge, come già da alcuni anni avviene in altri paesi come Olanda ed Inghilterra.
Infatti ogni convinzione morale, ogni appello ad antichi valori e princii religiosi, non puo' che impallidire e venir meno di fronte al malato che invoca, tormentato da dolori fisici irrimediabili, la possibilità di porvi fine. Se il paziente non puo' guarire la reale violenza è prolungare testardamente le sue sofferenze, costringerlo a patire ancora: sarebbe crudeltà continuarlo a guardare freddamente soffrire, somministrandogli impassibili l'ennesima dose di farmaci. Acconsentire a “staccare la spina” in condizioni estreme, non sarebbe, al contrario, che dare aiuto alla persona malata, ascoltare il suo appello ultimo.
In nome di cosa, infatti, si dovrebbe insistere nell'accanimento terapeutico in circostanze limite? In virtù della “dignità inviolabile della vita umana, dal concepimento al suo termine naturale” risponde il pontefice Benedetto XVI; ma, come rileva Pier Giorgio Welby nella sua lettera aperta al presidente Napolitano, “cosa c'è di naturale in un corpo tenuto biologicamente in funzione con l'ausilio di respiratori artificiali?”. Questa non è vita. Quale dignità della persona rimane nel suo annullamento completo e irreversibile? Praticare l'eutanasia significherebbe, in tale quadro, rispettare non soltanto il fondamentale diritto alla dignità umana, ma anche il naturale corso della vita e della morte, dinanzi al quale l'uomo non puo' nulla.
L'eutanasia non è un oomicidio né un suicidio; infatti lo sarebbero l'omissione di cure che potrebbero salvare il malato, mentre non lo è desistere dall'ostinata somministrazione di terapie incapaci di guarirlo.
In tal modo, dunque, si giustifica la forma passiva dell'eutanasia, ovvero la mera sospensione delle cure. Ma poiché la differenza tra questa e quella attiva, cioè la somministrazione di una dose letale di farmaci, non è che di tempo, fare distinguo è pura ipocrisia. Pertanto si legittima di conseguenza anche quest'ultima.
Ora, qualcuno potrebbe obiettare che così si renderebbero leciti anche l'omicidio o il suicidio di un individuo affetto da dolori morali, depressione, di chiunque soffra dal punto di vista psicologico e che allora l'uomo diverrebbe in grado di disporre arbitrariamente della vita e della morte. Ma cio' non è affatto vero, in quanto la decisione di morire non deve essere lasciata alla libera scelta dell'interessato o di altri, ma rigorosamente regolamentata da leggi, che la ammettano solo ed unicamente in casi di presenza, nel malato, di oggettive ed incurabili sofferenze fisiche, nonché previa richiesta conscia e consapevole del paziente, o, nel caso che questi si trovi in coma cerebrale o stato vegetativo, di chi ne fa le veci.
Allora l'eutanasia si presenta come un atto di umanità e rispetto verso la persona, la quale deve essere anteposta ad ogni altro principio di scienza o di fede.
m.f.